Settimana scorsa ho cominciato a parlare di collezionismo e a fine newsletter siamo arrivati alla conclusione che in realtà siamo tutti un po’ collezionisti.
La mail della settimana scorsa si chiudeva con un questionario, rivolto a raccogliere storie personali di collezionismo, partendo proprio dal concetto base: una collezione d’arte è solo una delle tante possibili, perché in realtà, una collezione è un modo tutto personale di rappresentare il mondo.
Prima di cominciare, volevo ringraziare (❤) chi si è preso la briga di compilare il questionario: sono tutte microstorie che meriterebbero un approfondimento, ma oltre a questo, sono per me un segno tangibile che l’idea dietro questa newsletter è valida. Quindi, a te che hai compilato, un grazie all’ennesima.
Se ti va, il form è ancora aperto, adoro leggere le storie e magari se arriviamo ad un numero considerevole, si può pensare di fare un passo in più: se vuoi compilarlo, vai qui.
Vorrei partire proprio dalle vostre storie, alcune delle quali sono folgoranti. Parto dalla mia preferita:
Il collezionismo è un problema di spazio. Si possono collezionare cose che occupano lo spazio di un'icona sul desktop -un file con tutte le negative answers ricevute sul lavoro- o si possono collezionare paperelle di gomma, che invece occupano ben più spazio e provocano una leggera vergogna.
Lo spazio di una collezione è qui visto in due modi: lo spazio fisico che occupa e l’”ingombro” che questa collezione ha nell’immagine di noi che vogliamo trasmettere al mondo: in entrambi i casi, questo volume può essere assai scomodo, perché dice qualcosa di noi che non ci piace o che vogliamo tenere riservato.

Lo spazio - fisico e mentale - è qualcosa che torna:
Ho letto il titolo della newsletter e il mio primo pensiero è stato:
"Per il collezionismo ci vuole costanza!"
[…]
Ebbene sì ho collezionato un sacco di cose: cartoline, francobolli, tessere telefoniche,
sorprese dell'"Ovetto Kinder", giornalini e riviste, bambole Barbie (giocate e non), scarpe, foulard....
Finchè anno dopo anno mi sono accorta che in realtà, tutti questi non sono che beni materiali che si accumulano nelle nostre case,
occupando spazi ed anfratti, ma a quale scopo? Soddisfare un'immediata brama di possesso, mettere a tacere il bisogno di essere come gli altri? Risvegliare ricordi ricomparendo davanti agli occhi, magari coperti da un imbarazzante strato di polvere?
Lo spazio che occupa l’insieme di oggetti in questo caso non è un ingombro, ma è assimilabile alla sensazione che si può avere di fronte ad una foto nostra o di un nostro famigliare scattata anni prima: Mio Dio, come mi vestivo male, oppure Chissà perché solo in questa foto sorride, o ancora una foto di qualcuno che non c’è più, ma che in quella foto sprigiona tutto il positivo che ha lasciato e che ci manca di più.
Il rapporto con la propria collezione sembra essere qualcosa di dolce-amaro, che ci mette di fronte non solo ad una rappresentazione del mondo, ma anche ad uno specchio con memoria, che assieme, in un unico colpo d’occhio, ci fa vedere le diverse versioni di noi, passate e presenti. Che magari, non ci piacciono proprio tutte.
Allo stesso modo, se una collezione ci restituisce un’estetica che è rimasta coerente con quello che siamo, quella vista non solo è un appagamento estetico, ma un rifugio sicuro:
Io colleziono segnalibri. Di ogni tipo, da ogni luogo, di ogni materiale. Ho iniziato all'università e continuo a farlo. Adoro i miei segnalibri molto semplicemente perché mi danno gioia. Leggo, apro il libro, e la prima cosa che incontro è un segnalibro con una estetica che mi piace; si, perché i segnalibri che colleziono, sono solo quelli la cui estetica rientra nei miei gusti.
L’ultima che vi riporto, restituisce un’idea un po’ più antica del collezionismo, collegata all’epoca dei cabinet de curiosité, dove l’oggetto esposto funzionava in realtà come un dispositivo di scoperta e meraviglia:
Quella di monete e cartamonete è nata nel più classico dei modi: qualche parente mi regalò alcune monete fuori corso facendomi rimanere affascinato da oggetti sconosciuti e mai visti. Proseguì con mia mamma che mi regalò i dinari rimasti dal viaggio in ex Jugoslavia e mio papà che andava appositamente in banca a comprare un dollaro o una sterlina.
Mi affascinava perché mi piaceva guardare ciascuna moneta e provare a indovinare le ragioni di certe figure o certe iscrizioni, nonché da che mani erano passate e cosa si potesse comprare con quei soldi.
Queste storie di collezionismo si somigliano anche in una sensazione che affiora dovunque: un senso di voluttà, a volte soffocato, altre volte vissuto serenamente. E leggendo queste storie, è stato naturale pensare alla passione libidinosa per l’arte di Giorgio Soavi.
Giorgio Soavi è uno di quei personaggi mitici che accompagnano la vicenda della Olivetti: negli anni ‘50 è alla sezione Progetti Speciali, e nel 1958 gli viene dato l’incarico di seguire la stampa di un volume che celebrasse i primi cinquant’anni dell’azienda.
Olivetti vuole il massimo della qualità, quindi vengono scelti gli stampatori Conzett & Huber, all’epoca il non plus ultra. Soavi viene quindi mandato a Zurigo, e finito il lavoro giornaliero in tipografia, se ne va in giro per la città: come un moderno flâneur, gira per musei e capita in una libreria in Overdorfstrasse, dove trova due acqueforti di Giacometti. Tentenna un po’ su quale comprare, poi capisce che se rinuncia al pranzo di quel giorno può acquistarle entrambe.
Quella non-scelta è l’inizio della sua collezione, incrociando la sua vicenda personale con quella dei maggiori artisti del ‘900, grazie anche alle opportunità offerte da un imprenditore visionario come Olivetti.
Il suo approccio all’arte era succulento, sanguigno: al pittore William Bailey confessa “per me, la pittura è cibo” e la visione dei disegni H. Janssen è “altamente culinaria, irresistibile ai sensi, e tanto l’occhio quanto il possesso o la voluttà d’inghiottirla vogliono la loro parte”.
Ora non voglio scivolare nella semplicistica considerazione che il collezionismo sia fame di bellezza o conoscenza, ma la fame è una di quelle sensazioni che ci guidano senza sovrastrutture culturali o pensieri laterali. È spaventosamente sincera. Quindi, che siano paperelle, segnalibri o preziose opere d’arte, continuiamo a farci venire l’acquolina in bocca.
📚 Cose belle da ascoltare, vedere e da leggere
Se vi ha stuzzicato la vicenda di Giorgio Soavi, Johan & Levi ha da poco ripubblicato il suo Il quadro che mi manca, che è un libro assai difficile da catalogare: a metà tra un memoir, una raccolta di saggi e una sorta di guida al collezionismo. Da gustare.
Evidentemente, il collezionismo stimola la gola: in occasione della mostra Reaching for the Stars che si è aperta a Palazzo Strozzi e basata sui cavalli di punta della fondazione Sandretto Re Rebaudengo, è stato lanciato un podcast tutto giocato su una conversazione attorno ad una tavola imbandita: Metti, una stella a cena, disponibile su Spotify e sulle principali piattaforme di audio streaming.
Un posto nuovo da vedere: apre oggi (1 Aprile) a Padova la Fondazione Alberto Peruzzo, nell’ex-chiesa di Sant’Agnese. Un nuovo spazio per l’arte contemporanea da tenere d’occhio.
Ci vediamo il 15 Aprile!